Dal 1974 fino al 1990, migliaia di giovani di tutto il mondo si sono diretti in una città indiana 120 chilometri a sud di Mumbai, raggiungibile dopo un viaggio in pullman che poteva durare dieci ore su strade perigliose: Poona era la meta che i ragazzi delusi dalle rivoluzioni mancate avevano scelto dopo tanto vagare da una ideologia a un’altra. E, come sempre accade quando una luce di speranza si accende in qualche parte del mondo, chi non ha mai smesso di cercare la sua via, presto o tardi se ne lascia attrarre.

 

Il maestro si chiamava Shree Rajneesh Bhagwan, un fratello maggiore che non aveva mai impugnato un libretto rosso né una molotov; che non si era mai mosso dall’India (solo più tardi, all’inizio degli anni Ottanta, avrebbe fondato un ashram, una comunità spirituale, in Oregon, negli Stati Uniti), ma aveva viaggiato dentro sé stesso e il cuore umano.

Ma chi era colui che insegnava ai giovani a liberarsi da condizionamenti politici, religiosi, familiari, senza proporre nuove dottrine? Bagwan, «il benedetto», nato in una famiglia di fede jainista, la più antica religione dell’India, era cresciuto nella totale libertà di pensiero e a 21 anni aveva raggiunto l’Illuminazione, la più alta vetta della consapevolezza. «Da quel momento — egli afferma — finisce la mia biografia esteriore e comincia una vita priva di ego, in profonda unione con le leggi del cosmo». Laureato in filosofia, campione di oratoria, insegna all’università e, nel 1966, attraversa l’India per diffondere «l’arte della meditazione dinamica», tecnica da lui creata per escludere la mente dai processi cognitivi: «Solo così il cuore e lo spirito torneranno a essere i luoghi privilegiati per raggiungere la consapevolezza».

 

Nel 1974 Osho, come prese a farsi chiamare, inaugura l’ashram di Poona, dove arrivavano pellegrini da tutto il mondo: babele di lingue e volti dove regnava l’armonia. Negli incontri dell’alba e del tramonto il Maestro osservava i nuovi ospiti e leggeva le loro storie. A 47 anni era un uomo bellissimo: la barba scura, le mani leggere, la voce che penetrava i corpi seduti tutt’intorno. «Le radici della guerra sono in noi, nella rabbia che accumuliamo, nella follia quotidiana che prima o poi esploderanno. Abbiamo un passato distruttivo, con la stessa energia avremmo potuto creare il paradiso sulla terra. Ma abbiamo dato vita all’inferno, perché siamo in lotta con noi stessi e quando la tensione si fa insostenibile, lottiamo contro gli altri».

 

I suoi discorsi erano filosofici, scientifici, psicoanalitici, religiosi. La sua conoscenza dell’Occidente era straordinaria come quella dell’Oriente. Da Buddha a Cristo, da Eraclito a Marx, dal mistico indiano Tilopa a Jung, dallo Zen al Sufismo, dallo Yoga al Tantra, individuava nessi e punti deboli di ogni dottrina e ne estraeva il pensiero forte: «Adesso e d’ora in avanti, fai quello che ti pare, ma sii consapevole. Sciolto e naturale. Non rinnegare nulla, sii te stesso». A Poona si liberavano impulsi distruttivi e energie nevrotiche per generare un’esplosione dentro sé stessi. «L’umanità si trova di fronte due possibilità: il suicidio collettivo o il più grande risveglio spirituale mai conosciuto».

 

Nell’ashram si udiva il brontolio del tuono di una rivoluzione disarmata che preoccupava chi reggeva le sorti del mondo. A Poona arrivarono osservatori dei governi impauriti dall’insegnamento che negava molte istituzioni: «La democrazia sarà possibile solo quando non vi saranno politici». Di lui si disse che avesse accumulato grandi ricchezze, che predicava l’amore libero: «L’amore è assai più di quello che chimica, biologia e ormoni possono spiegare. Ciò può spiegare il sesso, non certo l’amore».

 

 

Come Socrate era considerato corruttore delle coscienze giovanili, come i veri filosofi abbatteva un sistema di pensiero che aveva prodotto infelicità: la sua grandezza risiedeva nel non fornire soluzioni ma strumenti per realizzare sé stessi. «La risposta al tuo interrogativo è dentro di te».

 

 

Rita Stucchi Pedrini,

Corriere della Sera,

24 gennaio 2020